La ricerca dello zucchero è connaturale all’uomo. In ogni essere umano ci sono perfino alcuni ormoni (come NPY) che stimolano specificamente la ricerca delle sostanze dolci, in memoria di quando l’uomo viveva nel paleolitico (all’incirca un milione di anni fa) e aveva a disposizione solo rarissime occasioni per assumere sostanze zuccherine (qualche frutto e i favi di miele).

Oggi però i tempi sono cambiati; la disponibilità di zucchero è aumentata e la sua utilizzazione è addirittura ricercata dalle aziende che riempiono di zucchero e sale i loro prodotti per aumentarne la palatabilità e la spinta all’acquisto.

Infatti le sostanze dolci hanno ormai tristemente documentato di indurre “dipendenza” né più né meno come una droga o uno stupefacente.

Dal periodo in cui si propagandava lo zucchero come il rimedio migliore per fare studiare i bambini è fortunatamente passato del tempo e qualcosa è cambiato, ma la spinta alla dolcificazione e all’uso delle sostanze dolcificate con zucchero, fruttosio o con dolcificanti artificiali, porta comunque ad obesità, diabete, malattie cardiovascolari.

Inoltre basta sedersi davanti alla televisione per mezz’ora per rendersi conto che la maggior parte delle pubblicità propone i cibi dolci come valori positivi. Non più direttamente lo zucchero come un tempo, ma il suo travestimento da “fetta al latte”, “tortina” o “merendina” più in voga.

Un gruppo di ricercatori statunitensi, appartenenti al Center for Disease Control and Prevention di Atlanta e alla Harvard School of Public Health di Boston ha però finalmente preso in considerazione non solo il fatto che una persona che mangi zucchero più di altri si possa ammalare, ma ha invece definito il rischio di mortalità che una persona amante del dolce (fino al 25% ed oltre della quantità calorica complessiva introdotta derivante dallo zucchero) si trova ad affrontare in confronto a persone che usino una quota ragionevole di zucchero (fino al 10% delle calorie introdotte).

I risultati del loro lavoro sono stati pubblicati su JAMA Internal Medicine ed hanno confermato che oltre il 70% della popolazione statunitense introduce quotidianamente sotto forma di zucchero una quantità di calorie che va dal 10% in su delle calorie totali introdotte.

In modo incredibile, più del 10% della popolazione introduce come zucchero una quota di calorie che parte dal 25% di quelle totali arrivando talvolta ad una quota ancora maggiore (Yang Q et al, JAMA Intern Med. 2014 Feb 3. doi: 10.1001/jamainternmed.2013.13563. [Epub ahead of print]).

Chi consuma tra il 10% e il 25% di calorie giornaliere sotto forma di zucchero ha un Rischio Relativo (Hazard Ratio) di 1,30 mentre chi mangia una quota del 25% (o maggiore) ha un Rischio Relativo di 2,75. Tradotto in termini comprensibili significa che il gruppo che ha assunto più del 25% delle calorie quotidiane sotto forma di zucchero ha avuto, in ogni momento dei 22 anni di durata dello studio, una probabilità quasi tripla di morire di malattie cardiovascolari (infarto, ictus) rispetto a chi ne ha mangiato solo il 10%.

Fa particolarmente pensare il fatto che il lavoro non abbia messo a confronto chi ne mangiava pochissimo o non ne mangiasse affatto. In quel caso probabilmente il raffronto sarebbe stato estremamente gravoso.

Questi dati sollevano una notevole preoccupazione perché considerano come “normale” una popolazione che mangia comunque il 10% delle proprie calorie sotto forma di zucchero ogni giorno, che segue quindi le pubblicità e mangia biscotti e brioche, zucchera i caffè e le proprie bevande, beve soft drinks, usa la marmellata e mangia gelati.

Ha cioè un comportamento che viene considerato “normale” anche se prevede comunque una quantità notevole di sostanze zuccherine nella dieta individuale.

Si deve ricordare che il lavoro fa riferimento solo alla mortalità dovuta alle malattie cardiovascolari, senza tenere in considerazione altri tipi di patologie, dal cancro all’osteoporosi, su cui pure ci sarebbero considerazioni da fare.

Siamo quindi di fronte a evidenze epidemiologiche drammatiche e assistiamo impotenti a pubblicità che imperversano sempre nello stesso modo, proponendo come valori positivi, anche a soggetti di giovane età, esempi alimentari che non sarebbero assolutamente da seguire.